giovedì 5 luglio 2007

Avernalia

IV – Il Sangue Dei Padri (I Parte)

Antica la terra e forte e tomba d’eroi.
Il croco incorona e sigilla
Tumuli sparsi, cruente passioni
Che le bandiere dei clan han tinto di nero.
Dicono che Selene, nelle notti di nuova
Discenda il fiume, su una barca d’argento
E le onde si levino in segno di sottomissione.
Dicono che Selene tenda la mano,
Ai defunti in procinto di varcare lo Stige.
La dama lucente è piena di compassione e pure
Di lussuria, come quella che liquida gonfia
Scuri boccioli di rosa, e non vuole che giovani
Audaci sprofondino le proprie grazie nell’Ade.
Vibra di gelosia, la sorella minore di Aversa.

Procedevano lenti, come pesa il lignaggio,
Scansando con somma alterigia,
Gli stracci invadenti della plebe rurale
Che nei giorni di fiera gremiva le strade.
Alle spalle della processione, rimpiccioliva
La rocca, sulle spalle dei nobili le armi
Tornavano agli avi, dormienti in bianchi sudari.
Nella colonna che serpeggiava
Come il drago dello stendardo, tra collinette
Solenni, alta la fronte, il profilo aquilino,
Nausania reggeva la scure del nonno
Paterno. Al tiranno che a Tama aveva
Conquistato le rive più ambite del Mare,
Veniva resa la gioia del ferro.

“Chi non reca vergogna alla propria famiglia,
Varchi la soglia di chi la Gran Casa ha servito.”
Doveva chinarsi ogni volta, per accedere all’ara,
L’erede di Alisde il Tritone; e una volta in ginocchio,
Avvertiva insopportabile, il peso gravoso
Dell’ammonimento impresso sul portale di marmo.
L’insopportabile senso di vuoto, che
L’inadeguatezza colma di pugni nel vento,
A lungo fiaccò la voce di Nausania il Mezzo Arconte,
Che nei sogni implorava agli antenati il perdono.
Nelle solitarie ore quando la speranza guaisce
Ed il mondo si ritrae alla vista, intirizzito dal gelo
Chiedeva alla Luna consiglio; nella sua falce
Mezzana, come in un calice, apriva le proprie ferite.

“Mai le tombe han rifiutato d’accogliere un uomo,
Perché, “mea regina noctis”, i miei passi non
Posson calcare leggeri il sacro ipogeo, l’umida
Cripta sull’altopiano che la grandezza della mia
Casa eterna in questa realtà? Sconfinato
E’ il dominio della mediocrità. Il Tempo e lo Spazio
Mi han reso infelice la sua vicinanza. Sono gli
Astri sconosciuti e maligni, o sono io,
Ad essere incapace di replicare le imprese passate,
E rendermi degno di offrire il tributo ai miei morti?
Odiosa la sorte, odiosi i tempi moderni,
E questa città dove l’oro ormai riempie le vene
Più del sangue, ed insozza le dita dei ratti pulciosi,
Che brulicano nei recessi ingannevoli della mia patria.”

Si nascondeva nel silenzio mentre acre, come il fumo
Degli incensi, s’allargava il suo rancore.
“Chi vi credete di essere, voi sanguisughe dei giorni di fiera;
Voi che siete campanule appese a rocce massicce
E vanitosi del vostro apparire, vi ricoprite d’oro.
Nella terra scavate come le talpe, come roditori impauriti
Vi rifugiate nei botri profondi dove la luce è un lusso
Che non potete permettervi, per infine
Gettarvi voraci su pietre abbaglianti.
Abbassate lo sguardo, quando gli Stemmi volteggiano
Maestosi sotto le nubi, scrigni di tuono.
Abbassate lo sguardo alla terra, che vi ha concesso
Una gloria illegittima e passeggera.”


Terzo canto di Averna. Tama è, come diremmo nel nostro mondo, infettata dal male del capitalismo che disconosce la stirpe e le virtù morali e pone al vertice della piramide sociale individui abbietti, di bassa cultura. Il rancore di Nausania, figlio dell'antico ordine in declino, lo lacera internamente.

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